Correva l’anno 2015 e stava per cominciare la scuola e l’autunno quando scoppiò il Dieselgate e fece tanto rumore. Era il 18 settembre, per l’esattezza, quando l’EPA, l’Environmental Protection Agency, l’agenzia statunitense per la Protezione dell’Ambiente, accusò la Volkswagen di aver venduto centinaia di migliaia di auto inquinanti spacciandole per “clean”, barando in modo consapevole.
Ci volle un attimo per infiammare gli animi di tutti e si cominciò a gridare allo scandalo con ostinata passione, finché Martin Winterkorn, l’allora CEO della casa di Wolfsburg, non ammise, prima di consegnare le dimissioni, che il motore Volkswagen montato sulle autovetture nel mirino era truccato, o meglio, che quelle automobili erano dotate di uno speciale software illegale, roba da pirati dell’informatica, che riusciva ad ingannare i test sulle emissioni inquinanti, permettendo al meccanismo preposto di entrare in funzione solo nei momenti in cui il veicolo era sotto esame. Una volta passato quest’ultimo, poi, i veicoli giravano per le strade indisturbati emettendo emissioni nocive 40 volte superiori al limite imposto.
Al posto di Winterkorn fu nominato Matthias Müller, AD di Porsche, che si mise al lavoro cercando di salvare il salvabile, l’azienda tedesca ha chiuso l’anno con 1,58 miliardi di € di buco, e cominciò a trattare fin da subito, in attesa che le polemiche scemassero, i rumors si dileguassero nell’aria e gli avvocati delle class action promosse un po’ dappertutto dai consumatori traditi mettessero sul tavolo le loro richieste. Ma che ci fosse qualcosa che si muoveva lo sapevamo, e ce lo auguravamo, tutti.
Ed è infatti Reuters che spezza il silenzio degli ultimi mesi ed annuncia che è stato siglato un accordo negli Stati Uniti per risolvere i contenziosi sulle emissioni Volkswagen del Dieselgate. I protagonisti sono la Volkswagen, ovviamente, il Governo Federale Americano e l’EPA. L’ospite d’onore, invece, è Charles Breyer, il giudice che dovrà rendere ufficiale l’accordo approvandolo a fine luglio, magistrato federale di San Francisco, fratello di Stephen Breyer, che cominciò la sua carriera facendo parte della squadra di procuratori speciali che indagò sul Watergate, scandalo che mise in ginocchio l’America agli inizi degli anni ’70.
Il tanto atteso accordo prevede che la Volkswagen paghi 15 miliardi di Euro per risolvere in modo extragiudiziale la class action di dimensioni titaniche che è stata promossa negli States e risarcire l’EPA e lo Stato federale stesso.
10,3 miliardi saranno destinati a riacquistare le autovetture diesel con motore Volkswagen da 2.0 litri coinvolte, con risarcimenti aggiuntivi previsti compresi tra 5.000 e 10.000 $, o, in alternativa, per modificarle in modo che rispettino gli standard di emissioni imposti. Una parte sembra essere dedicata a risarcire quegli acquirenti che hanno svenduto la macchina dopo che sono venuti a conoscenza della truffa, anche se questa notizia non è stata confermata.
2,7 miliardi, invece, andranno all’EPA, a titolo di risarcimento per i danni che sono stati procurati a livello ambientale, cifra che verrà versata in un fondo ed utilizzata dallo stesso ente per bonificare l’ambiente.
2,0 miliardi, infine, dovranno essere obbligatoriamente utilizzati e/o devoluti nei prossimi dieci anni per promuovere lo sviluppo di tecnologie per produrre vetture non inquinanti negli Stati Uniti.
Non c’è che dire, questa brutta storia sulla truffa delle emissioni Volkswagen non è stata certo presa sotto gamba e la colpevole colta in flagranza di reato si guarda bene dal lamentarsi e dal rilasciare dichiarazioni provocatorie o polemiche.
Chiede scusa e paga, nel tentativo di non affondare.
Per quanto riguarda il segmento dei modelli Volkswagen equipaggiati con il 3.0 TDI, come la Tuareg, la Cayenne e le Audi extra lusso, anche loro inizialmente considerate inquinanti, le notizie sembrano buone, in quanto è stato riconosciuto che non sono dotati dello stesso software illegale delle sorelle minori, anche se Charles Breyer, il sollecito giudice appassionato di scandali, non ha ancora messo un punto definitivo ed fissato un’altra udienza il 25 agosto per avere ulteriori aggiornamenti sulla questione 3.0.
Sembrerebbe, dunque, finita bene, se non fosse che i quasi 500.000 veicoli coinvolti in questo accordo sono solo una minima parte di tutti quelli che la casa automobilistica tedesca ha venduto in tutto il mondo prima di esser scoperta con le mani nella marmellata. Il pallottoliere, infatti, si ferma su una cifra che fa venire i brividi sulla schiena ai dirigenti di Wolfsburg. Ben 11 milioni, infatti, sono i veicoli che girano sulle strade ed emettono fumi tossici e nocivi, e se tutti dovessero chiedere risarcimenti e ri-acquisti sarebbe sicuramente le fine per l’azienda che ha saputo produrre il Maggiolino, la rivoluzione su quattro ruote che rivendicava libertà e rispetto.
Per non parlare del vaso di Pandora che è stato scoperchiato, perché a furia di controllare i Ministeri dei Trasporti dei vari paesi europei si sono accorti che altre case automobilistiche, compresa FCA, hanno messo su strada modelli non sempre perfettamente eco-friendly, anche se tutti si affrettano a rilasciare dichiarazioni ufficiali sulla piena conformità delle autovetture prodotte in materia di emissioni inquinanti.
Si chiude il primo atto di questa triste vicenda, ma qualcosa ci dice che siamo solo all’inizio e che la Volkswagen, società che lo scorso anno era arrivata a capitalizzare 120 miliardi di euro in Borsa e oggi vale meno della metà, ha ancora qualche sospiro di sollievo da tirare.